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skèpsis

a cura di Franco Cipriano

Spazio011 - Torre Annunzita | Napoli

2014

> CATALOGO

"...La mostra si articola in una complessa installazione che indaga un tema sacro tramite il linguaggio video, e che si presta a diversi livelli di lettura, un mosaico di riferimenti e citazioni provenienti dalle sacre scritture. I materiali sono quelli della contemporaneità, che hanno caratterizzato il quotidiano del nostro passato prossimo: un’impalcatura da cantiere, degli schermi di televisioni e computer ormai obsoleti. Il linguaggio video elaborato attraverso le nuove tecnologie viene poi alterato da Patti tramite la contaminazione con strumenti ana-logici ottenendo un risultato finale inaspettato che caratterizza le sue opere. Riguardo la sua ricerca artistica Cipriano scrive «le immagini-luce manifestano il loro ritrarsi nelle testurizzazioni di luminose ombre, in apparizioni evanescenti che emergono quali orme della memoria senza origine»"  (Annapaola Di Maio)

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VIDEOTRASCENDENZA

di Franco Cipriano

 

Provatevi a guardar le cose che non vedete, e vedrete...
Carlo Michelstaedter

Che cosa vediamo quando vediamo? Vediamo conoscendo, con lo sguardo che penetra le cose e fa di esse esperienza di visione tanto corporea quanto intellettiva? E l’essenza del vedere è prima del vedibile o essa si dà, in fenomenologica visione, solo nello spazio-tempo della cosa? In greco sapere – eidénai - e forma - eîdos - hanno la stessa radice in eîd, vedere. Se in eidénai (sapere) si manifesta foneticamente il vedere: il vedere ‘risuona in esso’, come eîdos risuona nel sapere. Allora, vedendo formiamo un’idea (visione) o è un’ante-idea che fa vedere? L’essenza del vedere è nell’esperienza conoscitiva? O è un’ideale visione del visibile? Sono domande che sorgono in ogni sguardo sul mondo e che s’incarnano nei paradossi del linguaggio medesimo, s’incrociano come pensiero sospeso nel corpo delle cose, destabilizzandone il senso.

 

Dunque: dubitare nel vedere è riflettere il non-visibile come custodia del visibile. Nell’arte questo eccedersi del vedere ne riflette la tensione interrogante come nucleo del corpus operandi. La ricerca di Pier Paolo Patti da questioni del vedere noetico trae il senso del suo singolarissimo percorso sull’estremo possibile del video-linguaggio. È una ‘riflessione’ sulla verità del vedere e sull’ontologia della video- opera. L’intensità simbolica dell’Ultima Cena è topoi teologico cruciale per l’esercizio di uno sprofondamento video-analitico nella iconografia sacra. D’altro canto, si espone la ricerca dello schermo come corpo immaginale, sulla proiezione/trasmissione come spectrum performante, trauma visivo accedente a un inaudito stravolgimento nel senso e nel tempo della storia delle immagini.
Lo schema iconografico della narrazione evangelica è mutato in una radicale decostruzione concettuale. Un pensiero che si muove da contro- immagine, snidando le possibilità rivelatrici della luce, nell’analitica visionarietà delle alterazioni segniche e figurali. Oltrepassando la decostruzione medesima, Patti cerca il Signum dell’indicibile nelle matrici di formazione del linguaggio, forse per un “addio al linguaggio” medesimo. Un invito a “vedere” nelle estremità del linguaggio, dove “non c’è niente da immaginare”. Ultimo sentimento dell’impossibile, vera utopia della visione. Per Skèpsis i monitor sono grembi sempre in formazione, dove i segnali nascono come tracce di luce, riemergono in corrispondenze tra orme iconiche e perturbazioni testurali. Con lo sfondo nel commento verbale di una profezia apocrifa, (Gesù disse: essi riposeranno sopra un letto, uno morirà, l’altro vivrà), lo sguardo è coinvolto in un incrocio di assonanze, risonanze, lacerazioni, intermittenze, sdoppiamenti. L’attività video-elettronica trasfigurando se stessa trasforma lo spazio in evanescenza del simbolico. Nel videogramma che Patti proietta come in iconostasi di un altrove del visibile, la mensa dell’ultima cena sono le tavole di una precaria impalcatura edile e un tavolo-teca custodisce immagini di una pecora scandite in frame, dove l’animale appare e scompare tra corrosive luci e ombre, come “oublieuse mémoire” del sacrificio e d’innocenza non umana. Per Patti il senso della Rivelazione cristiana è sperimentabile nell’interrogazione persistente del vedere, tra memoria e sua reversibilità, nell’impossibilità della conclusa decifrazione, sempre interrogata nell’instabilità del destino umano. E skèpsis, la ricerca ininterrotta, di questo ‘senso sospeso’ è custodia. Nella spazialità del dispositivo visivo si presenta un’alterazione memoriale dell’immagine che, attraversando con decostruzioni topologiche e iconotopiche la sacra scrittura cristiana, insorge nel paradosso di un immobile movimento, nell’opera come sospensione del racconto, dove si avverte la tensione del cercare, l’apertura del possibile nelle trame della rappresentazione, nelle ‘forme negative’ che indiziano nella scansione della scena un’altra dimensione della narrazione. L’immagine si rivolge al suo interno, scavando un passaggio verso l’infigurabile, un ris-volto percepibile come cavità del senso. Le immagini-luce manifestano il loro ritrarsi nelle testurizzazioni di luminose ombre, in apparizioni evanescenti che emergono quali orme della memoria senza origine.

 

In Skèpsis è il corpus dei flussi immaginali che tra macchina e segnale si rivelano come energia di risonanza dell’irrappresentabile. Flussi che ascendono alla loro immagine, attraverso il dispositivo d’interazione tra analogico e digitale, come eccedenza del visibile? L’opera trasfigura se stessa come corpo profetico del mistero, rappresentazione irrisolvibile della Rivelazione, dispositivo di trascendenza.
È la distanza tra lo sguardo, la memoria e il pensiero immaginante a costituire un’eccedenza, un venir fuori nel visibile del suo contrario immemorabile. La video-installazione Skèpsis di Pier Paolo Patti è il luogo in cui queste interrogazioni dello sguardo (evento e forma del vedere) divengono condensazione del tempo visibile. Alterando il tempo narrativo del video, il dispositivo installativo sconnette la visione stratificandola nello spazio. Significa che il tempo non succede, non è narrativo ma eventico, accade perché lo sguardo lo attraversa spazialmente, e si fa lo sguardo medesimo spaziato. Non ha con-sequenze ma confluenze, connessioni e flussi - tra segni, segnali, immagini, oggetti, spazio - in uno stato di sospensione decostruente e interrogante, nel dritto e nel rovescio del linguaggio. L’articolazione spaziale dell’opera è corpo ibrido che si estende o si ritrae tra i flussi elettronici e gli impianti de-posti nello spazio che è struttura relazionale della video-istallazione. L’opera nasce come visione e assurge a evento performativo che trapassando la memoria eidetica e la memoria corporea accede alla soglia dell’abisso memoriale, patria dell’incerto, dell’incomprensibile, del non dicibile, dell’in-sensibile. Così, è l’ascolto di un’icona del suono,‘eco visibile’ della risonanza simbolica della materialità performativa dell’opera, ad annunziare l’alterità immaginale della video-istallazione. Non nella ieratica certezza del visibile ma nel suo infinito oscillare, in una radicale insecuritas, col perdersi nel manifestarsi e riapparire perdendosi del senso mediale, l’opera di Pier Paolo Patti si presenta come apocalissi del video-linguaggio, là dove il dispositivo si rivela nel suo trascendersi come non-dove del visibile.

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DISINCARNARE LA STORIA

di Stefano Taccone

 

«Non mi interessa più la sola denuncia. Essa deve sempre partire da una ricerca legata allʼuomo, alle sue origini, alla sua storia. In questa direzione va il mio futuro proposito di approfondimento delle Sacre Scritture in quanto patrimonio di conoscenza sullʼuomo e per lʼuomo. La Bibbia intesa come un vero e proprio prontuario per lʼesistenza». Così si esprime ormai quasi dieci anni fa, commentando una sua cruciale svolta sul piano sia poetico che esistenziale, lʼartista cristiano Salvatore Manzi, eppure – ne sono convinto – il suo collega ed amico non cristiano – ma neanche ateo – Pier Paolo Patti potrebbe tranquillamente sottoscrivere in buona sostanza tali parole. E ciò non solo e non tanto perché questʼultimo - così come fino a qualche anno fa lʼaltro - pone al centro della sua ricerca - ora in maniera più velata, ora in maniera più icastica – i motivi del disagio e della marginalità sociali, lʼoppressione di classe e lʼimperialismo pseudo-umanitario , ma proprio perché anchʼegli riconosce - tanto nella coscienza della teoria, quanto nella concretezza della prassi - la ricchezza antropologica del Vecchio e Nuovo Testamento – senza tralasciare gli apocrifi - e della tradizione giudaico-cristiana in generale, oltre che la rilevanza che – volenti o nolenti – tutto ciò conserva nella nostra contemporaneità ed ancora in essa più che mai vive.
Una tradizione che non si fonda però solo sulla parola ma anche sullʼimmagine, nel cui ambito anzi, spesso e volentieri, anche quando il medium è la scrittura, il visivo trova di che alimentarsi in ciò che essa è capace di evocare. Basti pensare alla simbologia dicotomica luce-tenebre, che attraversa lʼintero testo sacro - dalla Genesi fino allʼApocalisse - ma informa anche tutta la vicenda plastico-architettonica del cristianesimo - dalle catacombe dei primi secoli allʼetà barocca ed oltre. La tecnologia deliberatamente obsoleta con la quale Patti si esprime non ha quale riferimento linguistico altro immaginario. I suoi video sono di una scabrosità e di un antigrazioso che più non si potrebbe. Mai un colore vivace e fresco, mai una nota di calore e di primaverile che memoria umana possa aver registrato è presente in essi. È il chiaroscuro radicale del prosciugarsi della vita, ma anche del suo scorrere su di un piano più profondo; dello smarrimento delle possibilità di scandaglio, ma anche del raccoglimento più veridico; è il fioco di un crepuscolo che porta consiglio e dirada lʼadrenalina tossica del giorno, per rimpiazzarla con quella corroborante e carica di disteso futuro prossimo; è quella immersione in particolari condizioni spaziali, luministiche ed acustiche che induce allʼabisso liberante e librante della preghiera come esperimento di estrema prossimità alla Via, alla Verità, alla Vita, ove sonno e veglia, volontà e potenza, desiderio e dovere sembrano sovrapporsi e quindi svincolarsi da ogni orizzonte fondato sulla separazione e lʼinconciliabilità.

Le figure di Patti – i tredici schermi che corrispondono a Gesù ed ai suoi dodici apostoli, ad esempio – sono altrettante enigmatiche apparizioni, squarci di senso che pongono una interrogazione costante – ma transeunte – sul panorama della nostra esistenza, dialogando con una archetipicità inconscia ed ancestrale, qualcosa che già era non solo prima che noi nascessimo, ma prima che il mondo stesso fosse. Nello stesso tempo - per il credente, ma anche per il credente in una vicenda meramente umana – esse sono disincarnazioni simbolizzate della storia, tanto di quei singoli personaggi realmente esistiti con le loro azioni e passioni, quanto di una umanità che ad azioni e passioni analoghe costantemente ritorna – il rinnegamento di Pietro, il tradimento di Giuda, lʼincredulità di Tommaso, solo per citare i casi più noti. La maniera moderna, ce lo insegna Vasari, è il passaggio dalla rappresentazione in chiave simbolica, per mezzo di attributi – le chiavi di San Pietro, le tre palle auree di San Nicola, la coppa con gli occhi di Santa Lucia... - alla mimesi compiuta che fonda sui gesti e le espressioni dei personaggi la trasmissione dei significati. Può darsi che, oltre la modernità, il simbolo recuperi ormai la sua efficacia e influenza a svantaggio di una mimesi che lʼiperrealtà del mondo contemporaneo relega sempre più nella invisibilità del troppo noto, benché - come ci avverte Hegel - non necessariamente conosciuto.


P.S.: Ho aperto con lʼirrituale lunga citazione da un altro artista coetaneo di quello in oggetto, ben sapendo che alla maggioranza degli artisti una soluzione del genere arrecherebbe molto fastidio e magari mi chiederebbe di rinunciarvi. «Ma tra voi (noi) non deve essere così!», direbbe il Signore di cui sopra. Pier Paolo non è così!

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