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abbà

perdono e inconsapevolezza

a cura di Raffaella Barbato

Galleria PrimoPiano, Napoli

2017

> CATALOGO

UN OCCHIO ALL'IMMEDIATO E UNO ALL'INFINITO

di Stefano Taccone

«Due sono i leitmotif della mostra», spiega lo stesso Pier Paolo Patti, innanzi tutto «Il legame con i media, ché molto del materiale adoperato è preso deliberatamente dalla rete, materiale disponibile a tutti, come a voler sottolineare la volontà o meno di andare ad informarsi, non accontentandosi di quello che ci viene propinato dai media generalisti». Inoltre l’intero progetto è «fortemente incentrato sulla risistemazione geopolitica del Medioriente, dai tempi di Cristo ad oggi, un’area geografica in continuo sviluppo - ovvero in costante conflitto, in perpetuo mutare di assi politici, sempre in base alle risorse, ai confini, alle religioni. Le questioni che affliggono quella zona del mondo sono le stesse da migliaia di anni!».

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Scandita in tre sale – quella dell’Immanenza, quella dell’Incarnazione e quella della Trascendenza -, connotate rispettivamente da altrettanti colori - nero, rosso e bianco -, la personale di Patti, Abbà, perdono e inconsapevolezza - curata da Raffaella Barbato, che lo segue da lungo tempo, ed ospitata presso la galleria napoletana PrimoPiano – appare subito una sfida ardua non solo per lo spettatore, ma per lo stesso critico, data la molteplicità dei media adoperati e, conseguentemente, degli strumenti linguistici messi in campo, nonché la densità delle tematiche, dei riferimenti e degli umori che sollecita. In questi ultimi anni, almeno a partire da Skèpsis (2014), personale curata dall’artista Franco Cipriano presso lo Spazio011 di Torre Annunziata (NA), il linguaggio di Patti conosce infatti una crescita formidabile. Se il discorso sull’informazione di massa – che abbiamo udito essere uno dei due fil rouge dell’intero percorso – implica – tra l’altro - un esponenziale allargamento dei mezzi di veicolazione dei messaggi prescelti – lasciando cadere finalmente l’identità di artista che lavora prettamente con gli audiovisivi, etichetta che gli è rimasta appiccicata addosso per molti, troppi anni! -, la vocazione verso il discorso sociale, non aliena da implicazioni di denuncia – che praticamente da sempre accompagna, insieme appunto all’opzione audiovisiva, il lavoro di Patti – lo conduce, data anche la scelta di parlare del martoriato teatro mediorientale contemporaneo, a risalire fino agli inizi della nostra era – che notoriamente proprio in quelle regioni ha avuto i suoi albori –, all’insegna di un attento studio dei Vangeli, canonici o apocrifi che siano.

Tutto il percorso è improntato ad una sorta di materializzazione dell’adorniana dialettica negativa, più che della dialettica triadica hegeliana, in quanto non c’è idealistico superamento, ma materialistica impossibilità di negare la primaria negazione su di un piano superiore. Del resto il cristianesimo – e forse ancor più il cattolicesimo – possiede una componente innegabilmente molto materialistica, indispensabile controparte per il suo tipico, kierkegaardiano, essere paradosso, cortocircuito. E del cortocircuito, su di un piano tanto semantico quanto contenutistico, Patti si serve a piene mani!

Innanzi tutto il cortocircuito vita-morte. Il celebre episodio evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci, che è anche divisione all’infinito, oltre che condivisione, è contrapposto, ad esempio, ad una cellula tumorale nella sua corrispettiva moltiplicazione-divisione, a proposito della quale sarebbe peraltro quanto meno aberrante adoperare il termine condivisione. «I tumori di cui oggi ci si ammala», spiega l’artista, «sono dovuti proprio al cibo spazzatura, agli antibiotici usati per gli allevamenti etc. Per cui c’è questo legame su ciò che ingeriamo e le malattie che ci procuriamo noi stessi. Un tempo il cibo era segno di condivisione, di procreazione e di vita; oggi il capitalismo interpreta il cibo alla stregua di uno strumento per diffondere la morte». Il quadro del consumismo alimentare odierno si divide così – Patti ne è convinto - in cibo che si butta, quello che non hai ingerito, e cibo che determina la contrazione di malattie, quello che hai ingerito. E l’uno e l’altro caso per il capitalismo pari sono, giacché ciò che preme a tale sistema è semplicemente la transazione monetaria, fenomeno che  ha una seconda volta luogo sia se il cibo viene gettato nel secchione dei rifiuti, compreso quello dell’organico – perché allora bisogna acquistarne di nuovo più rapidamente – sia se il cibo è causa di malattie – perché allora bisogna mettere mano al portafoglio per procurarsi medicine ed onorare medici.

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E il binomio cortocircuitante vita-morte non si arresta solo al settore alimentare. Si pensi alla tragico détournement della tradizionale iconografia della Natività, tre fotogrammi tratti da un video trovato da Patti su youtube e ricomposti in maniera tale da evocare quella celeberrima scena, con tanto di padre, madre e figlio, ma anche da rovesciarla, poiché a quest’ultima figura, naturale perno della composizione, manca proprio ciò che conferisce inevitabilmente senso al tutto, ovvero la vita. La Natività si tramuta insomma, in altre parole, in una sorta di funesto Compianto sul bimbo morto.

Morte, Vangelo ed alimentazione interagiscono paradossalmente quanto causticamente verso la fine del percorso, ove una sequenza di fotogrammi, sempre prelevati dalla rete, ritraenti profughi siriani che, al confine con l’Ungheria, ricevono dei pacchi alimentari - «dei «pasti umanitari», come ancora una volta suggerisce l’artista stesso – è affiancata ad una montagna di frammenti di pane duro e preceduta da una teca con delle impronte di pesci che ricorda una fossa comune o il fondo di una nave che trasporta cadaveri – ancora un rimando sia alle letali tragedie del nostro tempo, sia allo spreco alimentare che di queste tragedie è una delle controparti, sia al miracolo del Cristo. «Da un lato», chiosa Patti, «con le politiche di espansione andiamo a sottrarre delle risorse ai paesi arabi, ai paesi in conflitto; dall’altro restituiamo, lungo i nostri confini delle briciole». Nuovamente la gloria del racconto evangelico si rovescia nella miseria del mondo contemporaneo pseudo-globalizzato!

Questo e tanto tanto tanto altro vi è insomma in questa recente mostra di Patti, che in tal modo evidenzia la ricchezza ma anche la circolarità – «tutto è connesso a tutto», sosteneva Lenin - del suo retroterra non solo culturale – e tanto meno solo artistico-visivo -, ma anche politico e sociale. Nel suo sangue ci sono i tenebrosi dipinti del Seicento campano, i loro fortissimi contrasti chiaroscurali che discendono dal pur breve passaggio del Caravaggio a Napoli, ma anche le stridenti giustapposizioni dei “concettuali politici” alla Martha Rosler o alla Hans Haacke. C’è la tradizione giudaico-cristiana d’impronta cattolica – tanto incamerata passivamente, quanto più tardi felicemente riscoperta con lo studio e con la passione, anche se non con la fede – e la tradizione del movimento operaio, che parte al più tardi dagli scritti di Engels e Marx ed arriva, attraverso molteplici contaminazioni, fino ai 99 Posse ed agli Assalti Frontali ed oltre.

È proprio dalle parole di una vecchia canzone della posse capitolina che voglio trarre una chiave per delineare in estrema sintesi tanto il complesso della mostra, quanto – assai più arditamente – l’identità non solo dell’artista, ma proprio dell’uomo Pier Paolo Patti. «Un occhio all’immediato e uno all' infinito», canta infatti Militant A in Banditi (1997). Patti è e resterà sempre un “compagno”, ma non crede più alla religione come “oppio dei popoli” che fu un punto fermo per tanta sinistra, almeno fino alla generazione a lui precedente – ed ancora lo è per tanti “compagni” odierni. Patti – ripeto – non professa né il cristianesimo, né alcun altro credo, eppure non solo ne è affascinato, ma probabilmente quanto meno ammette – se non percepisce – il bisogno di una dimensione trascendente. 

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